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Contro i parrucconi della stampa cartacea / 6
Lo Stato preferisce sovvenzionare i giornali piuttosto che attivare un mercato editoriale concorrenziale. Alle elites conviene che vada così

A denunciare lo scandalo dell’editoria assistita è stato Report, programma d’inchiesta condotto dalla giornalista Milena Gabanelli. La quale, nel concludere la puntata in questione, ha espresso un’ipotesi inquietante: "tutte queste persone lavorano per giornali che prendono finanziamenti pubblici. Uno dice: leggeremo moltissimo. Allora, in Italia ogni giorno 6 milioni di persone comprano un giornale, lo stesso numero che c’era nel dopoguerra. Comunque, con la nuova Finanziaria (siamo nella primavera 2006, ndr), chi è dentro è dentro, e per chi è fuori sarà un po’ più difficile attingere alla torta. E poi è stato abolito il contributo sulla carta. Ma forse c’è una ragione per la quale lo Stato tira fuori tutti questi soldi. Per lasciare forse le tv libere di incassare il 55% della raccolta pubblicitaria, mentre alla stampa va il 33. Nel resto d’Europa è il contrario".

Una stampa forte, autorevole, indipendente, capace di stare sul mercato e di attirare lettori ed investitori pubblicitari potrebbe ostacolare la televisione. In un paese che, come il nostro, registra uno sbilanciamento del mercato pubblicitario a favore della tv.

All’origine di queste distorsioni c’è anche una concezione elitaria della libertà di espressione del pensiero sancita dall’articolo 21 della Costituzione. Una concezione talmente radicata, tra gli addetti ai lavori come nell’opinione pubblica, da apparire scontata e da non venire messa in discussione, sebbene ci allontani dal mito della stampa anglosassone, decantato a parole e tradito nei fatti.

"Almeno adesso, di fronte ai nuovi pericoli, contro i quali non ci stanchiamo di gridare, la sinistra i giornalisti amanti del proprio mestiere dovrebbero finalmente essere costretti a superare la logica della libertà di informazione come libertà individuale, aziendale o corporativa, e a cominciare a pensare alle condizioni strutturali di autonomia della professione e del settore".

La libertà d’espressione è stata concepita a lungo più come diritto del singolo a esternare liberamente il proprio pensiero che come diritto della collettività ad essere adeguatamente informata attraverso un mercato editoriale fluido e plurale, privo di concentrazioni proprietarie e di insormontabili barriere all’ingresso.

"I grandi esponenti del giornalismo italiano – da Montanelli a Ferrara, da Scalfari a Feltri – ma si può dire l’intero ceto egemone del giornalismo italiano, vissuto nei miti del 'bello scrivere', dei pregevoli editoriali e dei fulminanti corsivi, insomma del pubblicismo letterario e dell’editorialismo d’intervento politico, hanno sempre coltivato l’idea di una 'libertà di stampa' che coincideva (e coincide) di fatto con la propria libertà di opinione. La stessa battaglia 'per la libertà di stampa', la stessa azione sindacale, gli stessi sogni e ambizioni professionali delle penultime e persino ultime leve di giornalisti sono stati (e sono) spesso segnati da quella cultura e, si deve dire, da quegli interessi. Tutto sembra girare attorno a poche decine di testate, di aziende, di entità e di figure, quasi tutte operative a Roma o a Milano, nei dintorni dei Palazzi della politica, dell’economia e della finanza".

Una concezione elitaria che sembra avere a cuore soltanto la libertà individuale di un ceto ristretto di intellettuali, mentre trascura la necessità di fare dell’informazione un mercato concorrenziale, aperto a una pluralità di soggetti dinamici e innovativi. Come se l’informazione, fatte le debite distinzioni, non potesse essere trattata alla stregua di una merce. Come se, a differenza di quanto accade nel mondo anglosassone (e non solo), la purezza dell’informazione rischiasse di essere contaminata dalle logiche di mercato, nel nostro paese viste da sempre con grande sospetto.

E invece proprio questa riluttanza a ragionare in termini di mercato ha arrecato notevoli danni al sistema Italia: non ultimo un panorama editoriale non sufficientemente plurale, a volte autoreferenziale, troppo condizionato dai poteri forti, che sciupa risorse pubbliche e scoraggia le iniziative prive di agganci nel mondo della politica e dell’imprenditoria. (fine)

Antonio Cilardo

direttore@tuttiinpiazza.it

15/04/2009
 
 
 
   POLITEIA
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